Una riforma attesa e necessaria che rinvigorisce il diritto canonico, mezzo pastorale che negli ultimi anni “ha subito, talvolta, un’erronea interpretazione, che ha alimentato un clima di eccessiva rilassatezza nell’applicazione della legge penale, in nome di una infondata contrapposizione tra pastorale e diritto, e diritto penale in particolare”.
La revisione del VI del Codice di Diritto Canonico era stata voluta da Benedetto XVI nel 2007. I tempi cambiano e occorrono degli aggiornamenti.
Papa Francesco nella Costituzione Apostolica “ Pascite gregem Dei” pubblicata oggi e firmata a Pentecoste, e che sarà in vigore dall’8 dicembre 2021, chiarisce che “la carità richiede che i Pastori ricorrano al sistema penale tutte le volte che occorra, tenendo presenti i tre fini che lo rendono necessario nella comunità ecclesiale, e cioè il ripristino delle esigenze della giustizia, l’emendamento del reo e la riparazione degli scandali”.
“Un clima di eccessiva rilassatezza nell’applicazione della legge penale, in nome di una infondata contrapposizione tra pastorale e diritto, e diritto penale in particolare” ha detto il Presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi Filippo Iannone, O. Carm. Si tratta di una maggiore e più certa appòlicabilità.
“Una riforma- dice Iannone- che ha lo scopo di rendere le norme penali universali sempre più adatte alla tutela del bene comune e dei singoli fedeli, più congruenti alle esigenze della giustizia e più efficaci e adeguate all’odierno contesto ecclesiale, evidentemente differente da quello degli anni ’70 del secolo scorso, epoca in cui vennero redatti i canoni del libro VI, ora abrogati. La normativa riformata vuole rispondere precisamente a quest’esigenza, offrendo agli Ordinari e ai Giudici uno strumento agile e utile, norme più semplici e chiare, per favorire il ricorso al diritto penale quando ciò si rende necessario affinché, rispettando le esigenze della giustizia, possano crescere la fede e la carità nel popolo di Dio”. Importante poi l’inserimento della “presunzione di innocenza”.
Il codice viene rinvigorito con la riforma non solo aggiornato. “In tale senso- spiega il Segretario del Pontificio consiglio per i Testi legislativi Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru – sono stati anzitutto incorporati al Codice reati tipizzati in questi ultimi anni in leggi speciali, come la tentata ordinazione di donne; la registrazione delle confessioni; la consacrazione con fine sacrilego delle specie eucaristiche.
Sono state incorporate poi alcune fattispecie presenti nel Codex del 1917 che non vennero accolte nel 1983. Ad esempio, la corruzione in atti di ufficio, l’amministrazione di sacramenti a soggetti cui è proibito amministrarli; l’occultamento all’autorità legittima di eventuali irregolarità o censure in ordine alla ricezione degli ordini sacri”.
I criteri di fondo sono tre: “una adeguata determinatezza delle norme penali che prima non c’era, al fine di conferire un’indicazione precisa e sicura a chi le deve applicare. Per far sì che ci sia anche un impiego uniforme della norma penale in tutta la Chiesa, le nuove norme hanno ridotto l’ambito di discrezionalità lasciato prima all’autorità, senza eliminare del tutto la necessaria discrezionalità richiesta da alcuni tipi di reato particolarmente ampi che esigono volta per volta il discernimento del Pastore”. Un secondo criterio “è la protezione della comunità e l’attenzione per la riparazione dello scandalo e per il risarcimento del danno” e infine un terso obiettivo è “fornire al Pastore i mezzi necessari per poter prevenire i reati”.
Tra le nuove fattispecie “ad esempio la violazione del segreto pontificio; l’omissione dell’obbligo di eseguire una sentenza o decreto penale; l’omissione dell’obbligo di dare notizia della commissione di un reato; l’abbandono illegittimo del ministero. In modo particolare, sono stati tipizzati reati di tipo patrimoniale come l’alienazione di beni ecclesiastici senza le prescritte consultazioni; o i reati patrimoniali commessi per grave colpa o grave negligenza nell’amministrazione” e il divieto peri i chierici di amministrare “beni senza licenza del proprio Ordinario”.
Inoltre “il reato di abuso di minori è ora inquadrato non all’interno dei reati contro gli obblighi speciali dei chierici, bensì come reato commesso contro la dignità della persona”.
Significativo anche che il nuovo can. 1398 comprende “le azioni compiute non solo da parte dei chierici, che come si sa appartengono alla giurisdizione riservata della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma anche i reati di questo tipo commessi da religiosi non chierici e da laici che occupano alcuni ruoli nella Chiesa, così come eventuali comportamenti del genere, con persone adulte, ma commessi con violenza o abuso di autorità”.
Il lavoro sulla riforma non viene solo da Roma. Le bozze del testo sono passate al vaglio delle Chiese locali.
Del resto però la questione era che la formulazione del 1983 nata dalla mentalità degli anni ’70 vedeva testi “spesso indeterminati, proprio perché si riteneva che i singoli Vescovi e i Superiori, ai quali spetta applicare la disciplina penale, avrebbero stabilito meglio quando e come punire nel modo più adeguato”.
E c’era anche una “difformità di reazioni da parte delle autorità” che “ risultava pure motivo di sconcerto nella comunità cristiana”.
I lavori hanno preso il via nel 2009 con un confronto continuo con le Conferenze episcopali, i Dicasteri della Curia romana, i Superiori Maggiori degli Istituti di vita Consacrata, le Facoltà di diritto canonico, i consultori e un ampio numero di canonisti.
Chiarissimo l’intento del Papa, anche perché “In passato, ha causato molti danni la mancata percezione dell’intimo rapporto esistente nella Chiesa tra l’esercizio della carità e il ricorso – ove le circostanze e la giustizia lo richiedano – alla disciplina sanzionatoria. Tale modo di pensare – l’esperienza lo insegna – rischia di portare a vivere con comportamenti contrari alla disciplina dei costumi, al cui rimedio non sono sufficienti le sole esortazioni o i suggerimenti. Questa situazione spesso porta con sé il pericolo che con il trascorrere del tempo, siffatti comportamenti si consolidino al punto tale da renderne più difficile la correzione e creando in molti casi scandalo e confusione tra i fedeli. È per questo che l’applicazione delle pene diventa necessaria da parte dei Pastori e dei Superiori. La negligenza di un Pastore nel ricorrere al sistema penale rende manifesto che egli non adempie rettamente e fedelmente la sua funzione, come ho espressamente ammonito in recenti documenti, tra i quali le Lettere Apostoliche date in forma di «Motu Proprio» (Come una Madre amorevole del 4 giugno 2016 e Vos estis lux mundi del 7 maggio 2019)”.
(ACI Stampa)